LE "RADIOSE GIORNATE"
DELLA PRIMAVERA DEL '45
I VINTI DELLA LIBERAZIONE
Parroci di campagna nel mirino dei partigiani
Beppe Gualazzini
Per i comunisti i parroci erano tra gli oppositori
più efficaci, quindi molto pericolosi. Avevano confessionali in
cui sapere anche la verità sulla violenza rossa che, fuori, nessuno
osava dire. Avevano pulpiti da cui parlare e condannare, gente ad ascoltare.
Erano organizzati con oratori, consigli comunali, formavano diocesi. Quattro
volte più numerosi di oggi, erano disseminati ovunque. Più
dei carabinieri, più dei farmacisti. Persino più delle case
del popolo. E se la loro parrocchia disponeva di benefici terrieri, ebbene,
erano da odiare due volte, una perché preti, l'altra come padroni,
e rientravano perciò doppiamente in quell'assunto che, dalla fine
della guerra, girò per anni tra le squadre d'azione comunista, in
cellula e nelle case del popolo: «Se dopo la liberazione ogni compagno
uccidesse il proprio parroco e ogni contadino il padrone, il problema sarebbe
già risolto».
E non è vero che ad ogni don Camillo rispondesse
un Peppone. I primi furono tanti, dei secondi in questo amaro viaggio di
triangolo della morte non trovo traccia. Non c'è parroco che non
abbiano intimidito, isolato. Tantissimi furono scherniti, derubati, rapinati.
Ora io vi racconterò di quelli che, dopo aver già tanto sofferto
in tempo di guerra da tedeschi, fascisti e partigiani rossi, sono martirizzati
in tempo di pace dalla violenza comunista. Nell'allora folto branco di
parroci può magari scapparci, che so, lo scapestrato, il disattento,
l'arricchito. Non però tra le decine uccisi.
Ogni assassinato è perbene. E tra i più
attivi, equilibrati, generosi, attenti alla propria gente. E' seguito,
amato, perciò un maledetto nemico del popolo, dunque va soppresso,
distrutto e che ogni assassinato sia esempio per gli altri, che tengano
la bocca chiusa. E c'è un motivo, più d'ogni altro: essi
hanno in sé e con sé Dio.
Il 25 aprile è la Liberazione, la fine della
guerra, e da adesso i parroci dell'Emilia Romagna, ma anche delle regioni
vicine, ogni sera, nell'ultimo segno della croce, non sanno se rivedranno
l'alba o se capiteranno in casa gli assassini, come accade la sera del
16 gennaio '46 a don Francesco Venturelli, arciprete di Fossoli, nel Modenese
vicino Carpi. E' stato cappellano nel campo di concentramento della sua
parrocchia, è un tipo che non chiede che tessera politica hai, che
assiste tutti quanti, inglesi, fascisti, partigiani, collaborazionisti.
E' uno che dopo la Liberazione detesta la brutalità e gli eccidi
che si ripetono nel Carpigiano contro fascisti e presunti fascisti. E dunque
è sera, uno sconosciuto lo chiama fuori di canonica chiedendo di
accorrere per un incidente mortale sulla provinciale. Don Francesco corre
e si trova invece davanti a un plotone di rossi che lo falcia col mitra.
Invece don Gianni Domenico, trentenne, celebra messa
ai giovani soldati repubblichini. Il 24 aprile '45 all'arrivo degli alleati
corre tra la sua gente a San Vitale di Reno: in chiesa lo stanno aspettando
i partigiani comunisti, lo gettano in un porcile, lo denudano, lo violentano.
Ci sono anche donne tra loro, e una in particolare, è la più
ardente nel seviziarlo. Il lungo martirio si conclude a colpi di mitra
e ai parrocchiani si impedisce per giorni di seppellire il martirizzato.
Don Giuseppe Tarozzi è parroco a Riolo di
Castelfranco, diocesi di Bologna, severissimo nell'amministrare un'opera
pia fa il diavolo a quattro per tener lontano da essa la politica e ladri.
Notte del 25 maggio '45: i commandos comunisti fracassano a colpi di scure
la porta della canonica, lo strappano dal letto, lo pestano, poi lo trascinano
via in camicia da notte. La gente vede un'ombra bianca sospinta fuori a
calci, il suo cadavere non sarà mai più ritrovato.
Ancora diocesi di Bologna: don Giuseppe Rasori,
sessantenne a San Martino Casola ha solo due parrocchiani non iscritti
al Pci. Sberleffi, minacce, assalti alla chiesa. Vive nella paura ma resta.
Nel pomeriggio del 2 luglio '46 in canonica, dove in guerra ha nascosto
tanti partigiani, lo ammazzano con un colpo di pistola al collo. Il suo
successore poco tempo dopo in chiesa parlando della passione di Gesù
accenna allo straccio rosso con cui fu coperto per derisione. Deve fare
ripetute e pubbliche scuse, i comunisti l'hanno presa come ingiuria alla
loro bandiera.
Don Alfonso Reggiani, parroco di Anzola di Piano,
Bologna, il 5 dicembre '45 sta pedalando di ritorno da una visita ai suoi
ammalati, lo fermano in due, l'ammazzano a raffiche di mitra, se ne vanno
sulle biciclette. Una cigola e gli assassini dicono: «L'ungeremo
a casa, adesso che abbiamo ammazzato il maiale». Al funerale di don
Alfonso, reo di battute umoristiche sui comunisti, ci sono solo cinque
bambini e qualche donna.
Un prete semplice, conciliante, don Enrico Donati,
ma è parroco a Lorenzatico, Bologna, della famiglia del sindacalista
bianco Giuseppe Fanin, che sarà massacrato, nel '48 a colpi di spranga
dai comunisti. Il 13 maggio '45 quattro compagni con la scusa di portare
don Donati al comando partigiano per formalità, lo feriscono a colpi
di mitra, gli legano le mani, lo infilano in un sacco e lo gettano con
due sassi per zavorra in un macero colmo d'acqua.
La sera del 25 luglio '45 un altro comando chiama
don Achille Filippi, parroco di Maiola, sull'uscio della chiesa e l'uccide:
cancellando anni ed anni di lavoro e bontà per la gente, le colonie
per i bambini, la povertà degli anziani. Ma il gran farabutto in
chiesa biasimava le violenze e i soprusi dei comunisti; a morte.
Già un altro era stato condannato a morte
un mese prima della Liberazione a Santa Maria in Duno per aver rinfacciato
ai partigiani rossi efferatezza durante la guerriglia: il primo marzo '45
si presentano due armati travestiti da tedeschi, irrompono in canonica
con due donne anch'esse armate, dicono di essere di un comitato, legano
Don Corrado Bortolini, rubacchiano e poi lo portano via in motocicletta.
Mai più trovato, anche se tutti sanno che è stato torturato,
strangolato, gettato in una fossa. Al suo successore c'è chi ammonisce
di non interessarsene: «Tanto don Corrado dorme in un campo di fiori».
Ora io continuerò l'elenco dei preti ammazzati
finché ci sarà spazio. E quando vedrete i... vuol dire che
lo spazio purtroppo è finito e il mio collega nell'impaginazione
ha voluto tagliare il pezzo. Ma l'elenco no, tanti preti martiri in Emilia,
tanti in Romagna e in altre regioni.
Don Tino Galletti, nella chiesa di Spazzate Sassatelli,
a Imola, è un altro che non parla bene dei comunisti in una parrocchia
rossa, non più di sei persone alla messa domenicale. Il 9 maggio
'45 è ucciso a colpi di pistola e per non mandarlo via da solo ammazzano
anche tre dei suoi sei fedeli. Non un cane ai funerali.
Implora pietà invece don Luigi Lenzini, parroco
di Crocetta di Pavullo, nel Modenese, la notte in cui un gruppo di comunisti,
gente del paese, lo trascina in camicia da notte dalla canonica alla vigna
e qui lo seviziano da stramaledetti e poi gli spaccano la testa: ha condannato
il metodo di «far fuori la gente» dei comunisti.
Freddati a pistolettate il parroco di Mocogno e di Montalto,
cioè il canonico Giovanni Guizzardi e don Giuseppe Preci, nel Modenese.
Morte lenta per l'anziano don Ernesto Talè, parroco di Castellino
delle Formiche, modenese, e per la donna che stava accompagnandolo da un
ammalato, «quella carogna non voleva morire ... », dirà
al bar uno dei torturatori del prete.
Nel Reggiano non ammettono gli eccessi disumani
di chi, partigiano comunista, scredita il movimento di Resistenza e sono
freddati col mitra don Giuseppe Lemmi, cappellano di Felina e don Luigi
Manfredi, parroco di Budrio.
E' il 14 settembre '45, l'assassino che spacca il
cranio a don Tebaldo Dapporto, parroco di Casalfiumanese di Imola, corre
alla Camera del Lavoro a vantarsi d'aver fatto fuori il suo prete-padrone.
Don Carlo Terenziani, prevosto di Ventosa, la mattina
del 29 aprile '45 è preso dai partigiani rossi che lo fanno girare
per le strade come un Cristo schernito, sputato, ingozzato di vino all'osteria,
battuto e infine fucilato a sera.
Don Giuseppe Pessina, parroco di San Martino di
Correggio, piange diciannove parrocchiani assassinati dai comunisti e sa
troppe cose: ucciso a colpi di mitra mentre la sera del 18 giugno '46 rintocca
l'Ave Maria...
IL GIORNALE Quotidiano del 14 novembre 1996